Certo, non ho scritto io.
Ma oggi lo leggo e lo rileggo e a tratti mi commuove e mi riconosco....eh, solo in parte, non sono cosi' tanto..... e ha riassunto tante cose di cui avrei voluto parlare ma che oggi non vogliono uscire.
No, oggi mi leggo in altri.
Per vostro diletto...spero..Emma
"La materia difettava tuttavia alla mia scarsa esperienza: i gesti e le opinioni degli altri non mi eccitavano all’inchiostro: o, per più esatto dire, l’esperienza non sempre lieta che avevo fatto degli esseri umani pareva respingere da sé la mia penna. Così un pittore si volge senza speciale vocazione, anzi con certa ripugnanza, a un modello particolarmente ignobile, o squallente, o privo di «segni» della personalità, cioè «insignificante» (È vero che il puro colore lo chiama, e la pittura è arrivata oggi a penetrare indi a ritrarre voluttuosamente i suoi mostri.)
Nella mia vita di « umiliato e offeso » la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la «mia» verità, il «mio» modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicché il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice rattenendo l’ira, lo sdegno. Di ciò domanderei perdono a Dio, e magari alle creature, se Dio e le creature potessero garentirmi di non ripetere, in avvenire, gli scherzucci del passato. Domanderei e domando comunque perdono, poiché se gravi sono state le offese immeritamente patite, gravi sono stati anche gli errori dipoi commessi. Molti errori ho commesso: dopo e in conseguenza dei turbamenti che le offese avevano generato in me: tanto da rendere accettabile a mio vantaggio quella sublime osservazione del Manzoni, quando giudica di Don Rodrigo, e di Renzo in furie: «chi fa il male è responsabile non soltanto del male che ha fatto, ma dei turbamenti nei quali induce l’animo degli offesi».
La mia scrittura si è dunque volta a narrare, al puro narrare: come la mia anima si avvicina alla serenità e alla obiettività giudiziosa della morte. Il giorno che s’ha le braccia in croce sul petto, siamo tutti molto giudiziosi, siamo tutti angeli.
Anch’io sarò un angelo, quel giorno: tutti i miei peccati saranno evaporati fuori dalla mia santa compostezza, dalla immobilità e dalla impossibilità di peccare.
Così non sarò più lo scrittore bizzoso e vendicativo che ero in vita: non sarò più l’inchiostratore maligno e pettegolo che avevo l’obbligo di essere per essere un narratore che si rispetti: non sarò più il maniaco dei tecnicismi, dei motti popolareschi, dei modi eruditi, degli archi a spiombo e delle piramidi sintattiche, dei periodi a cavaturacciolo, che mi vengono così giustamente rimproverati dal buon gusto e dal buon senso delle mie vittime. Ho pronunciato la parola «pettegolo». Credo realmente che un bravo narratore debba possedere e debba esercitare non soltanto quello spirito di osservazione che, forse, non mi difetta, ma anche quel gusto del conoscere i fatti (i fatti altrui), quella voracità inquisitiva che mi è le più volte mancata e tuttodì mi manca, checché ne dicano i mordaci miei amici. Temperamento piuttosto incline a solitudine, inetto a cicalare con brio, alieno dalla mondanità, io avvicino e frequento i miei simili con una certa fatica e una certa titubanza, con più titubanza e con più fatica i più virtuosi di essi. Davanti a chiunque rivivo gli attimi di uno scolaro all’esame. Mi diletto invece di chiare algebre alle ore di «loisir». Che non ti snervano quanto una conversazione di salotto; ove, a me, m’incorre l’obbligo di fingermi spiritoso e intelligente, non avendo né l’una né l’altra qualità.
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